Pubblichiamo il post di Rossella Musotto partecipante alla IX edizione del Master.
Avete mai visto un brand cambiare “d’abito”? Succede continuamente nel panorama della comunicazione mondiale, a volte per non soccombere, altre per “rinascere” dalle ceneri.
Il termine inglese “Rebranding”, ormai entrato a pieno titolo anche negli ambienti del marketing nostrano, si riferisce ad un “plan of action in that a spic-and-span designation, expression, sign, planning, either amalgamation of that is generated for an recognized brand with the aim of elaborating a spic-and-span, distinguished ID in the brains of customers, financiers, and rivals.” [1]
Si concretizza generalmente come un’azione totale o parziale su un brand esistente, l’entità dipende dalla profondità con cui opera sullo status quo: può consistere in un intervento puramente estetico per “rinfrescare” un’immagine obsoleta che non è più in sintonia con i pubblici di riferimento (e quindi si opera sul logo, sui packaging, sui testimonial…); oppure materializzarsi in un’azione radicale, la quale si spinge fino a quelli che sono i valori posti alle fondamenta della marca (la mission, i principi).
Il Rebranding è qualcosa di necessario per l’azienda nel caso in cui è evidente (nelle vendite, nei fatturati e negli indici di Customer Satisfation) un deterioramento, più o meno sanabile, nei rapporti con gli Stakeholders, a cui fondamentalmente ogni azione del marchio è indirizzata.
Spesso l’obiettivo è uscir fuori da una crisi, riacquistare proprio quella che per le aziende è linfa vitale, cioè la buona reputazione e di conseguenza la fedeltà dei clienti che le sceglieranno per un forte valore aggiunto.
La punta emergente di un grande iceberg quale può essere intesa la struttura di un’ azienda, è di certo la comunicazione, nelle sue molteplici manifestazioni; quest’ultima, intesa in senso tradizionale o più moderno, sulle piattaforme social, è il primo punto di contatto con i consumer, dunque uno degli aspetti che maggiormente devono essere curati in fase di Rebranding.
Per fortuna, in molti casi, si è fatto ricorso al contributo della Semiotica, campo di studi che “si occupa delle relazioni significanti. […] Analizza i “testi” come organismi che hanno in sé la responsabilità dei propri effetti di senso. Utilizza per l’analisi una griglia universale, cioè applicabile ad ogni tipo di testo.” [2].
I testi pubblicitari di una marca in crisi possono essere dunque rianalizzati a partire dalla superficie, dal loro livello espressivo, palesato, sino a quello che è il loro livello più profondo, quello valoriale; segue poi, all’analisi di quanto l’azienda ha comunicato sino a quel momento, una fase di ottimizzazione, dai valori profondi all’espressione, che migliora la proposta comunicativa alla luce degli errori e delle incongruenze riscontrate. E’ facile ad esempio riscontrare incoerenza fra i canali comunicativi impiegati dal medesimo brand. In sintesi contribuisce ad orientare o ri-orientare le scelte comunicative e di posizionamento.
Negli ultimi decenni si è assistito ad una progressiva saturazione del panorama pubblicitario, manovre aggressive di marketing e comunicazione la fanno da padrone in uno scenario sovraffollato dove l’intento è prevalere, ma al contempo è incredibilmente facile soccombere. Le analisi semiotiche applicate al marketing, adottate da brand di fama internazionale (ad esempio Ferrero, P&G, Nespresso, Geox), mostrano grande successo ed un’evoluzione inaspettata verso tendenze di osservazione integrata, sia quantitativa che qualitativa, applicata dalle aziende, con l’aiuto degli istituti di ricerca, per migliorare i loro prodotti comunicativi.
[1] Laurent Muzellec, Mary Lambkin, (2006) “Corporate rebranding: destroying, transferring or creating brand equity?”, European Journal of Marketing, Vol. 40 Iss: 7/8, pp.803 – 824.
[2] “Semiotica e Market research, una lezione.” G. Ceriani, presidente Baba Consulting. https://www.youtube.com/watch?v=HQJEE_obun0