Con molto piacere pubblichiamo il guest post di Mattia Miani, docente nell’area disciplinare “Comunicazione digitale, web 2.0, social media” del nostro Master e docente di marketing e entrepreneurship presso la RMIT International University, Vietnam.
La comunicazione dei brand ha già da tempo sviluppato delle tecniche per affrontare le differenze culturali, tra paesi o all’interno di uno stesso paese. Oggi più che mai questo è un ambito su cui i professionisti della comunicazione devono riflettere perché gli approcci tradizionali funzionano sempre meno.
Quali sono questi approcci? Essenzialmente tre : la comunicazione etnica, quella globale e la localizzazione.
Nel primo caso – la comunicazione o marketing etnico – le differenze, specialmente all’interno di un paese, ma anche in una regione, sono viste come un’opportunità per differenziare l’offerta in rapporto a nicchie di mercato definite da profili etnici. Il caso studio naturale sono gli Stati Uniti, dove latinos, afroamericani, asiatici sono gruppi così consistenti da indurre le aziende a pensare a programmi di marketing ad hoc (sia nella comunicazione che nel prodotto). L’ultimo caso è McDonald’s che ha lanciato una serie di campagne orientate a specifici gruppi etnici per aumentare le vendite sul suolo natale.
Nel secondo caso, un marchio adotta un’unica strategia di comunicazione a livello globale. È il modo migliore per economizzare sui costi organizzativi e creativi dal momento che si può in questo modo utilizzare i servizi di una sola agenzia multinazionale.
Infine, c’è chi sceglie l’approccio della localizzazione della comunicazione. In questo caso a differenza della comunicazione etnica non viene costruita una nuova strategia di marketing complessiva, ma vengono semplicemente adattati al contesto linguistico locale una strategia e una creatività usati a livello globale.
Ma questi approcci non tengono conto di quello che potremmo chiamare il supermercato delle identità culturali (e con questo paragone non vogliamo dare un connotato dispregiativo al fenomeno, vogliamo solo sottolineare la dimensione di consumo dei simboli di identità culturale e la loro facile disponibilità, come nelle corsie di un supermercato).
I profili culturali non sono più qualcosa di ereditato e stabile, ma un marcatore di identità in continua evoluzione per ciascun individuo. Oggi chiunque può costruire identità complesse attraverso il consumo di prodotti e idee provenienti da ogni angolo del globo. Il nostro consumatore postmoderno, come lo definisce Fabris, potrà di volta cambiare gli stili alimentari, la dieta mediale, perfino il credo religioso sulla base di un’infinita offerta multiculturale. Ed ecco che lo stesso individuo potrà seguire la televisione statunitense tramite Internet, godere della musica tribale africana in festival appositamente organizzati, e anche abbracciare una nuova religione forse sconosciuta solo dieci o venti anni fa nel suo paese. Il sistema dei media, del commercio e delle migrazioni globali rendono questo interscambio infinitamente rapido e conveniente e il più delle volte non c’è neppure bisogno di spostarsi da casa.
Lasciando ad altri ambiti considerazioni circa gli effetti del consumo di simili oggetti culturali fuori dal loro contesto originario, è chiaro che le strategie tradizionali di comunicazione etnica e comunicazione globale, nonché di localizzazione, risultano insufficienti perché assumono che l’identità culturale sia un marcatore stabile e lineare. Ecco allora che si aprono nuove opportunità per il marketing che potrà di volta in volta individuare in questo flusso di identità i giusti agganci per le proprie strategie comunicative.
Mattia Miani